Dovrebbe essere ormai chiaro ai lettori di Players – magazine premuroso di riaccendere l’attenzione e la discussione attorno a pellicole non proprio di ultima uscita – che questo 2016 sia anche l’anno degli affettuosi ricordi, dei grandi recuperi e dei nostalgici anniversari, quelli dedicati ai piccoli grandi film che, negli anni Ottanta, hanno fatto la storia dei generi. Il 15 agosto 1986, periodo caldo per la programmazione intensiva di teen horror e b-movie, usciva nelle sale statunitensi La Mosca (David Cronenberg), originale rivisitazione di un classico della fantascienza datato 1958, L’esperimento del dottor K. (Kurt Neumann), tratto a sua volta dal racconto coevo La Mosca di George Langelaan.

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Aggiungere qualcosa di nuovo a tutto quello che è già stato detto sul film di Cronenberg non è facile, e sicuramente sarebbe inutile ripetersi, tuttavia un’osservazione mi sembra doverosa. A prescindere dalle tecnologie impiegate – non certo all’avanguardia – e dal suo impianto effettistico – tradizionale e “materico” – si può dire che La Mosca rientri in quella cerchia ristretta di film “confezionati” per essere messi al riparo dal tempo, film liberati dal pericolo di corrompersi prima nello spirito e poi nella struttura e capaci così di mantenere intatto il proprio potere impressionante e affascinante. Come? Affrancando la storia da un taglio moralizzante e privando la messinscena di una didascalica impronta metaforica.

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La Mosca è un body horror sporco e viscerale, in cui della trasformazione di Seth Brundle da dottore attraente a ripugnante mosca umana – un fenomenale tragicomico Jeff Goldblum – non ci viene risparmiato nulla, ma anzi, quella mutazione viene posta sotto riflettori e lente di ingrandimento con lo scopo di distruggere a poco a poco l’umanità di chi osserva (personaggi e spettatori) sbattendogli in faccia, proprio sul finale, l’estremo atto di umanità di un essere informe e irriconoscibile. La Mosca, come altri film di Cronenberg, riflette sul corpo come entità costrittiva e lo fa vivisezionandolo, torturandolo e ammirandolo in tutta la sua brama evolutiva, di cui la psiche resta ineluttabilmente vittima. Lo si intuisce nella scelta adottata da Cronenberg – un’importante variazione rispetto al racconto e al film degli anni Cinquanta – che vede coesistere nel dottor Brundle l’uomo e il mostro, entità miste ma distinte nella storia originale in cui si muovono un uomo con la testa e la zampa di mosca e un piccolo insetto con la testa del dottore.

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Se in quelli era il tema del doppio a fare da traino a una vicenda più paradossale che ripugnante – il dottor K, dopotutto, sta per Kafka – più angosciante che orrorifica, ne La Mosca è il corpo a far da padrone, in tutta la sua straziante proteiformità. Nel finale del film, a coronamento di questa essenziale distinzione, Cronenberg decide di non lasciare che la morte di Brundle si verifichi nei termini di una bizzarra fatalità, suggerendo allo spettatore l’intervento di una giustizia divina e consolandolo con una blanda mestizia (come avveniva nel film originale), ma scelga di consegnare al protagonista la dolorosa incombenza di cercare la sua stessa distruzione per mano della donna che ha amato, e che ha tentato in tutti i modi di portare con sé…



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